Li chiamano i palazzoni. Sono edifici costruiti negli anni Sessanta. Grattacieli dai colori improbabili che sfiorano il mito della ricostruzione postbellica, ma che sono andati molto oltre al mito. Sono tutti uguali, tutti con i balconi incastrati nel cemento armato, che oggi sono diventati una serra di antenne paraboliche, panni stesi ad asciugare e oggetti di scarto: reti metalliche, armadi rotti, pezzi di biciclette. Di fianco si vedono edifici più bassi e davanti, il muro del lungolinea della ferrovia. Il cielo è bianco. Invernale. Due mani enormi, dipinte sul muro, fotografano tutto con uno smartphone. Calpesti cemento che si sbriciola. Il ruomore è la sola cosa che risuona in questo spazio semideserto. Detriti, immondizia, residui di innumerevoli vite precedenti. Ti siedi su una delle sedie, messa di finco ad altre, a formare una fila come in un cinema. Ma questo non è un film.
È tutto vero.
A tratti si sentono rumori più pesanti, qualcosa che cade a terra e si frantuma: devono essere pezzi del tetto, di quello che è rimasto e intonaco, pezzi di muro, qualche uccello che è entrato da una finestra e cerca un nido. Crolli. Uno dopo l’altro. La situazione può essere pericolosa. Dentro a un capannone abbandonato sentirsi sicuri in mezzo a tutti quei crolli sta diventando difficile. PERICOLO DI CROLLI. Hai sorriso di fronte ai cartelli che sono appesi qua e là agli ingressi dei vari capannoni. KOLLAPS. In tedesco edifici che crollano si chiamano Einstürzende Neubauten. Ma qui non siamo negli anni Ottanta e non siamo a Berlino.
Hai lasciato l’auto in un parcheggio vicino al campovolo. Non è un aeroporto, è proprio solo un enorme campo, un prato verde, nel quale sono sistemati qualche hangar e dove volano piccoli aerei. Hai attraversato l’erba bagnata e oltrepassato gli alberi piantati da poco in questo luogo invaso dal cemento, dove non crescerebbe un’ortica, fusti secchi alti poco più di mezzo metro con delle etichette attaccate ai tronchi ad indicarne la qualità.
Hai scavalcato il buco nella rete guardandoti intorno: i container fermi lugo i binari della ferrovia disegnano ombre lunghe e coprono la scritta blu con il nome della stazione, il ponte che passa sopra la ferrovia disegna una curva precisa, ellittica, e il traffico risuona con un ruomore costante e regolare. Si vede la parte centrale della stazione, quella più alta. La stazione dei treni è come tutte le stazioni dell’Emilia e della Romagna. È un edificio lungo e basso, suddiviso in tre porzioni di spazio. È stata ricostruita nel 1949, come molte altre stazioni dell’Emilia e della Romagna, dopo aver subito pesanti bombardamenti. Dal 2013 in questa città ci sono due stazioni, come in nessun altra città dell’Emilia e della Romagna, e forse d’Italia, una è una stazione moderissima, dove passano treni ad alta velocità. È grande, disegna diverse curve ed è di colore bianco. È stata costruita più a nord. Fuori dal centro. Fuori da tutto, o quasi. Ma questa è un’altra storia.
Ti guardi intorno è non c’è niente ad alta velocità qui, non c’è niente di ricurvo nè di colore bianco. Tutto crolla, lentamente, da anni, si scrosta e si stacca dai muri, dalle pareti, le pareti si accartocciano su loro stesse, il ferro dei tetti si incurva sotto il ghiaccio e la pioggia. Minuscole gocce d’acqua continuano a cadere intorno, da qualche parte, senza che si possa realmente capire da dove. Il freddo risucchia l’acqua e la trattiene in lunghi candelotti ghiacciati che scendono dal tetto e dalle fessure dei muri. La luce della mattina proietta le colonne di cemento in avanti e sbatte contro alle pozzanghere risaltando al massimo. Non hai fatto colazione. Non sei andato al lavoro. Non hai più un lavoro.
Hai scoperto questa mattina che esistono le ore dieci e quindici del martedì. Fino ad oggi questo orario l’avevi del tutto ignorato. Anche il martedì ti era sempre sembrato un giorno senza significato. Non hai idea di che cosa le persone facciano il martedì mattina alle ore dieci e quindici.
Hai guidato lungo la circonvallazione e sei arrivato fino alla stazione. Sei entrato nella parte dove una volta c’era una sala d’aspetto e adesso c’è un McDonald’s. Vuoi fare colazione. Una decina di ragazzi sta discutendo con il dipendente a una delle due casse. Parlano a voce alta e mostrano all’uomo un foglietto che hanno in mano. Insistono. Lui scuote la testa, si guarda intorno alla ricerca di qualche collega che possa confermare, che possa approvare il suo rifiuto. Resti fermo in attesa del tuo turno, mentre l’uomo con la divisa del McDonald’s prende un cartello con la scritta CASSA CHIUSA e lo mette davanti alla cassa. Poi davanti a quell’altra. Il McDonald’s ha chiuso. Qualcuno si allontana in fretta, due ragazzini restano seduti al loro tavolo mangiando il muffin che hanno ordinato prima della chiusura di tutte le casse. Chiedi spiegazioni, ma nessuno sembra capire quello che sta succedendo. Non possiamo accettare tutti quei buoni pasto. Non è proprio possibile. Sono troppi. Appiccicato al vetro della porta d’ingresso, insieme agli adesivi delle carte mastercard, bancomat e contanti, c’è l’adesivo qui si accettano buoni pasto. Il gruppo di ragazzi con i buoni pasto esce dal MsDonald’s. I buoni pasto nella mano destra. Foglietti di carta che lo Stato Italiano distribuisce ai richiedenti asilo nella cifra di 150 euro mensili e che possono essere utilizzati nei negozi e negli esercizi commerciali, che hanno esposto il logo: qui si accettano buoni.
Li chiamano i palazzoni. Sono edifici alti che affacciano sulla stazione dei treni e sul ponte che passa sopra ai binari della ferrovia. Sei entrato qui insieme ad altre due o tre persone che sono arrivate a piedi e in bicicletta. Due ragazzi probabilmente africani e due uomini dei quali non avresti sapuro indicare la nazionalità. Probabilmente abitano qui. Forse anche loro non hanno fatto colazione. Resti fermo ad ascoltare i ruomori che si sbriciolano, la luce di una giornata come tante che entra dentro a questo enorme edificio che era stato una grande fabbrica, un rifugio antiaereo, un bersaglio della contraerea tedesca, una nuova fabbrica, il simbolo del potere operaio e il fallimento del potere operaio, il simbolo del capitalismo e il fallimento del capitalismo: le EX OFFICINE REGGIANE.
Oggi, un tetto in frantumi per molti, una finestra sul mondo: su un mondo tutto vero:
Mesmer
Art by: collettivofx https://www.collettivofx.org/
Foto di: bombarettistreet [galleria Instagram @bombarettistreet]
I fatti qui raccontati non sono del tutto inventati e non sono casuali: