La stanza

«Tutte le infelicità dell’uomo derivano dalla sua incapacità di sedere da solo in una stanza» B.Pascal

Il fatto di trovarsi chiusi in una stanza stava diventando sospetto. Guardarsi intorno non bastava più, la compulsione dei commenti più normali: l’intonaco alle pareti, eventuali quadri appesi, fotografie, gli arredi disposti in maniera evidente, meticolosa, i pavimenti piastrellati o ricoperti da sottili assi in legno chiaro, i tappeti posizionati in vari punti della stanza, spessi e di varia forma e colore, i lampadari appesi al soffitto a illuminare zone precise, il soffitto bianco o trasformato da grosse travi in legno scuro di varia lunghezza. La ripresa tridimensionale dello spazio si disfaceva piano nel senso della lentezza e nel senso della visuale piatta dell’occhio vitreo abituato ad osservare in ordine sparso – poco espanso – e a lasciare andare le cose per trattenerne qualche giudizio estetico di poco conto: mi piace, non mi piace, che orrore, bel colore, accogliente, quanto poco gusto. Un lento movimento passava in sotterfugio i vari modi di essere dello spazio quadrato, tendente al rettangolare, che a tratti sembrava farsi più stretto, quasi chiudersi ai lati, restringersi alle estremità: ma niente sembrava muoversi davvero in quel momento. Tutta la stanza si aggrappava a qualcosa come le pareti e pendeva dal soffitto e restava lì ferma, solida, con tutto quello che conteneva: le mensole alle pareti le catene di libri sulle mensole, uno specchio piccolo e quadrato dentro ad una vecchia cornice in legno scuro, il lampadario grande, che pendeva dal centro esatto del soffitto e riluceva della luce che entrava da una delle due finestre che aprivano un varco sulla strada, sul traffico, sul canto degli uccelli tra i rami secchi della stagione già quasi invernale. La luce entrava dalle finestre e in certi orari illuminava tutto, in certi altri meno, fino a scomparire nel buio e a ricomparire nella luce del lampadario, che solo a quel punto arrivava ad illuminare il buio di fuori. Quando la luce entrava nella stanza, nelle ore meridiane del giorno, si poteva notare un pulviscolo trasparente, ovunque, che restava lì sospeso – chissà dove – nello spazio tra il pavimento e il soffitto e si muoveva convulsamente, velocissimo, fine e leggero eppure così presente ovunque, che pareva fosse l’aria stessa a prendere consistenza in quel momento, a farsi pulviscolo, polvere, ossigeno.

Tutto quello che c’era intorno era lì in quel momento: una minuscola certezza essenziale.

E che tutto sarebbe stato niente, se non fosse stato lì, era altrettanto certo. Non era una speculazione casuale il rimescolarsi di questioni irrisolte nel domandarsi della stanza, della sua pienezza, dei suoi arredi; non era una scuola di pensiero il borbottare della mente intorno alla chiusura della porta, all’apertura delle finestre, intorno alle ragioni di quel momento, di quella mattina presto: del traffico che arrivava da fuori e che dopo un tempo non troppo lungo smetteva di essere anche solo un rumore, scompariva nell’abitudine ad inghiottire i suoni, scompariva da qualche parte, trapassava il sentire per finire dentro all’esserci del suono discontinuo a tratti forte, ruggente, di un suono caotico e mescolato, anche continuo per la verità, che andava e veniva tutto il giorno, fino a sera tardi; ci se ne poteva rendere conto subito, entrando anche una sola volta nella stanza, dell’andamento del traffico di fuori, che poi non si trattava tanto del traffico fuori, ma del traffico che penetrava i muri e che si infilava nella stanza e diventava un tutt’uno: non c’era più un dentro e un fuori del traffico, non c’era più un silenzio e un rumore, c’erano silenzio e traffico e rumore e silenzio tutto dentro alla stanza, tutto in quel momento esatto nel quale arrivava tutto insieme alla parete auricolare dell’orecchio, dell’udito.

Non era la via d’uscita quella che tratteneva dentro.

La mancanza di alternative rendeva tutto molto preciso.

Il disorientamento non durava che un intervallo con un inizio e una fine; dopo un certo tempo il corpo iniziava ad acquistare peso, incominciava a farsi consistenza, un dolore alla spalla sinistra risvegliava la coscienza della figura situata in un certo luogo della stanza; dalla spalla il dolore scendeva verso il petto saltando allo stomaco, giù verso l’addome, e il tutto risuonava nel battito cardiaco che si faceva più veloce o forse solo più presente; si faceva vivo e vegeto. A quel punto il pensiero stesso smetteva il suo proprio ribollimento e tutto quello che restava erano nette sensazioni che si potevano chiamare del corpo, oppure no, non si potevano chiamare affatto, tutto quello che restava non era che il resto di quello che era, non era che tutto quello che già c’era, ma che poteva emergere dal rimescolio continuo dell’osservazione e del pensiero.  Il formicolio delle piante dei piedi, lo stirare di un muscolo della coscia destra, dei legamenti delle ginocchia, lo scorrere dei liquidi nelle braccia, fino alle dita delle mani, fino alle unghie che stanno lì come staccate da tutto, esposte all’aria, i muscoli del viso che si contraggono e si distendono a ripetizione, le palpebre che vibrano e la luce che sporge appena sotto alle pupille, l’aria che entra dalle narici, e un moto circolare che rigirava su sé stesso lì nel mezzo, lì da qualche parte nel bel mezzo dell’addome e un po’ più sopra e un po’ più sotto, lì dentro insomma, in mezzo a tutti quegli organi vitali, gli organi della digestione e della respirazione, del respiro.  Un suono di campane arrivava a ribadire il tempo che passava da fuori a dentro e che impolverava tutti quanti gli oggetti che c’erano intorno e che alimentava l’impazienza del non sapere di potere uscire fuori, del non sapere che cosa fare, che cosa dire a chi parlare se non ai muri, ai libri, alle lampade, il tempo della noia mortale, del tedio, della mancanza di alternative, della mancanza di un modo soltanto che potesse ridurre la percezione di essere proprio lì, di trovarsi proprio nel posto esatto, di essere giunti nel luogo indicato e di non sapere che cosa farci: di non sapere restarci. Il suono arrivava lontano, lo si poteva sentire piano all’inizio e dubitare che chissà da quanto tempo stava già suonando; ad un certo punto – non si sapeva bene quale – iniziava a risuonare, come se stesse suonando due volte, o tre, o quattro, il suono si moltiplicava e solo a quel punto veniva colto in tutta la sua estensione, in tutto il suo tempo, dall’inizio alla fine, forse, in tutto il suo modo d’essere, nella sua esistenza precisa, netta: rumorosa.

La via d’uscita non era affatto scontata. Non c’era nel senso letterale della cosa, non c’era che una porta, che era sempre stata aperta. E mentre smettevano tutti i suoni, e ritornavano da dove erano arrivati, lasciati andare, incominciavano a scontrarsi con le idee, i pensieri, con tutte quelle cose dentro a chissà dove, forse, con tutti gli oggetti vivi e vegeti che rimpinzavano tutta la testa, proprio la riempivano e uscivano da ogni parte, dal naso, dagli occhi, dalla bocca: le tue parole di oggi non le ho capite, che cosa volevi dire esattamente – il film incomincia alle 21 dovrei fare in tempo a passare da casa p – ho dimenticato di comprare il caffè – il prossimo weekend andremo in montagna farò in tempo a preparare tutto – questo mese ho avuto troppe spese dovrei imparare a ris – domani potrei lavare la macchina – l’écriture comme un couteau – e dovrei tornare a seguire il respiro ora – ha il volto delle cose che hai perdutoooo – questa sera sarebbe meglio andassi a letto presto – e:

E qualcosa continuava a rimanere lì, sembrava non avere senso niente, continuare a respirare era diventata forse un’abitudine? Non ci se ne poteva accorgere così, su due piedi, in mezzo alla stanza il respiro doveva pur sempre esserci, lì da qualche parte. Oramai il tempo doveva stare per scadere, la stanchezza era evidente, ma non aveva importanza, niente aveva importanza ormai: il centro della stanza stava diventando uno spazio nuovo:

Mesmer

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